Bello senz’anima, non per quello che riguarda musei e palazzi storici ma sicuramente per il commercio. Senza quell’anima che in passato contraddistingueva Firenze nelle insegne dei negozi e nella loro fiorentinità. Un centro che negli anni ha perduto, uno dopo l’altro, quelli che erano stati un po’ i simboli del fare bottega fiorentino e ciò che rendeva in qualche modo unico fare shopping a Firenze. Oggi che le vie della moda a sera si riempiono ancora di luci, a farla da padrone sono le grandi griffe internazionali e i negozi in franchising, pronti ad offrire le loro preziose mercanzie, sempre le stesse però di città in città. Ed è così che Firenze finisce per diventare in qualche modo simile a Toronto o a un’altra qualsiasi metropoli. Una trasformazione che appare inesorabile e certo non riguarda solo Firenze, ma interessa ogni settore del commercio, visto che come la maison prendono il posto dei vecchi negozi di tessuti, i centri commerciali sostituiscono le antiche macellerie, gli ortofrutta, le dimenticate latterie. Un avvicendamento che sembra inesorabile.
“Quanto sta avvenendo a Firenze, come nelle principali città d’arte del nostro paese, è sotto gli occhi di tutti: l’offerta commerciale, soprattutto nel centro storico e nelle aree a maggiore vocazione turistica, si sta paurosamente omologando e uniformando a canoni estetici ed economici di natura, diciamo cosi, internazionale e globale. A Firenze, a Roma, a Venezia si trovano ormai, tranne alcune eccezioni, i grandi marchi delle multinazionali della moda, dell’accoglienza e della somministrazione presenti nelle grandi città del mondo. Certo ci sono delle piccole ma significative eccezioni, per esempio nel settore dei pubblici esercizi, nell’approvvigionamento alimentare (si pensi ai mercati coperti di San Lorenzo e Sant’ Ambrogio), nelle attività, infine, di commercializzazione di moda e tessuti, ma, in generale, il processo di omologazione, partito alcuni anni fa, ha avuto un’ulteriore accelerazione durante la crisi e dà adesso la percezione di potersi rapidamente ‘ingurgitare’ ciò che resta del tessuto commerciale tradizionale”. Una diagnosi chiara e precisa, quella del presidente di Confesercenti provinciale Nico Gronchi, secondo cui qualcosa per conservare un maggiore margine di fiorentinità poteva anche essere fatto, con più decisione.
Ma come siamo arrivati a tutto ciò? “Semplice: non siamo riusciti a mettere in campo strumenti di mitigazione di quel processo di liberalizzazione selvaggia, che eliminando progressivamente ogni vincolo in termini di destinazione merceologica, orari di vendita e nuove aperture attività, ha reso, di fatto, ingovernabile il commercio nelle nostre città. La totale assenza di regole, sommate a una feroce speculazione sugli affitti, ha fatto sì, in poco tempo, che le attività tradizionali fossero espulse delle principali aree turistiche della città e sostituite da grandi aziende multinazionali. Ormai da anni stiamo cercando di porre un freno a questa situazione, ma ogni tentativo di vincolare e governare in qualche modo questi processi si è incagliato di fronte a un quadro normativo nazionale basato oggi più di ieri, su un credo economico e imprenditoriale totalmente diverso. Ecco perché parlare oggi di ‘vie della moda’ ha un significato completamente difforme rispetto a solo qualche anno fa. Le attività moda e tessuti, anche a carattere artigianale, sussistono in città, e spesso mettono in campo anche una straordinaria vitalità e voglia di fare (lo ha dimostrato, per esempio, alcuni mesi fa l’iniziativa Unico promossa, in concomitanza con Pitti Uomo, da Cna e Confesercenti) ma, nella maggior parte dei casi, hanno perso la ‘vetrina’ del centro storico cittadino. Analogamente, molto si è perso della tradizione, anche questa squisitamente fiorentina, delle macellerie e attività alimentari tradizionali, praticamente dimezzate nell’ultimo decennio. Qui ha inciso molto anche la crescita e lo sviluppo della grande distribuzione organizzata, oltre al cambiamento di stili di vita e composizione del nucleo familiare. Resistono, per il momento i mercati coperti della città, se non altro perché sono riusciti, almeno fino ad oggi, ad offrire un importante servizio a parte della cittadinanza”.
Ma quali conseguenze ha tutto ciò sotto il profilo occupazionale? “Il commercio fiorentino sta radicalmente cambiando pelle, ormai da diversi anni; però è bene specificarlo, ciò non si traduce in una perdita di numero complessivo di imprese e occupati (i numeri segnalano un trend stabile e senza grandi smottamenti) ma, più in generale, in una modifica sostanziale della natura di impresa. Da una parte i grandi marchi internazionali, la cui ‘governance’ niente ha a che fare con la città, dall’altra una miriade di micro attività individuali legate alla ristorazione e somministrazione (talvolta anche a conduzione straniera, vedi minimarket) caratterizzate da un significativo turn-over e da una fisiologica mancanza di continuità aziendale. Fenomeni contraddittori tra loro, se vogliamo, ma entrambi frutto della deregulation selvaggia”.
In conclusione, come possiamo intervenire in questo contesto e salvare il salvabile? “Da un punto di vista normativo, si impone una radicale inversione di tendenza: ci vogliono più regole, più programmazione, più governance. In altre parole, la piccola impresa del commercio e del turismo non può più essere, soprattutto nei centri storici e nelle città d’arte, in balia del ‘libero mercato’ e del ‘laissez faire, laissez passer’. Questo dobbiamo fare, senza indugio alcuno; bisogna vedere se ci sarà, anche nell’immediato futuro, la volontà politica di farlo o se prevarranno, come spesso successo anche in passato, logiche diverse, e soprattutto, di parte”.