Ho atteso quasi quattro ore alla stazione di Genova, tra banchina e ufficio informazioni. Mentre l’altoparlante continuava a snocciolare i ritardi di treni e poi le cancellazioni delle corse. Rabbia, sconcerto, frustrazione. Ma come: tutto questo solo per quelle poche decine di ragazzi che hanno deciso in un giorno d’inverno di occupare i binari? Senza che nessuno si fosse opposto? Quei ragazzi però sono qualcosa in più di un disturbo, anche se loro davvero vogliono disturbare, non le persone ma le coscienze. E se il collettivo suscita un po’ di timore, se vederli lì tutti insieme ad urlare slogan per gasarsi fa pensare a degli sconclusionati, diverso è se ci si ferma a pensare, se solo si riesce a scambiarci due parole. Hanno vent’anni, la scuola è alle spalle, l’università perlopiù un tunnel costoso che immaginano senza uscita e il lavoro solo un’ipotesi vaga, che si concretizza solo in una serie di rifiuti e di porte chiuse in faccia. Vivono dei pochi soldi racimolati dai loro genitori, ma ogni giorno che passa questa dipendenza pesa di più. E vogliono dire basta ad un paese che a loro sembra privarli del futuro, come già del presente. Scendono in piazza, in strada, sperando di coinvolgere la città, di sollevare gli animi. E invece si ritrovano lì in poche decine. Così a guardarli bene, sotto ai cappucci di felpa, appaiono già più delusi che arrabbiati. E il fumogeno, i cori servono solo a darsi coraggio. La bilancia della ragione forse potrebbe pendere dalla loro parte. O almeno avrebbe potuto, prima che gli venisse in mente di bloccare la stazione, mettere in difficoltà chi come loro vive una realtà già difficile. Si fa presto a scivolare nel torto. Anche se quando se ne vanno, mentre comincia a farsi buio, si scusano in coro per il disturbo. Ma chi sono? Il movimento del 9 dicembre, quello del giorno dei forconi. Cosa vogliono? Qualcosa in più. Qualcosa di meglio, forse. Per loro, ma non solo. (Maurizio Abbati)