L’agricoltura toscana ha il vino nel suo dna. Non si tratta solo di conformazione geografica e di tradizione, ma anche e direi soprattutto di mercato. Il vino toscano continua a vantare un forte appeal nel mondo, addirittura crescente malgrado lo sviluppo della concorrenza proveniente da altre parti del mondo, dove l’enologia ha avuto una evoluzione assai più recente. E puntando su una promozione adeguata e un lavoro intenso per mantenere elevati gli standard qualitativi si può pensare che la fetta di mercato riservata al nostro vino possa ancora aumentare, magari a discapito di altri prodotti nazionali. Questo non può non determinare un tentativo di espansione della produttività, che passa anche attraverso l’aumento delle superfici vitate. Certo tutto ciò potrebbe compromettere in alcuni casi l’aspetto del nostro paesaggio, facendo affiorare qualche tralcio di vite laddove non se ne erano visti, ma più che alle politiche repressive e ai regolamenti in questo caso è forse bene affidarsi al mercato stesso. I nostri consorzi hanno disciplinari ben precisi, che indicano con esattezza quali zone possono considerarsi parte o meno di una denominazione di origine o una indicazione geografica protetta. Se un nuovo vigneto non ne fa parte, il rischio più grande che si corre è non poter vantare accanto al nome della fattoria un marchio celebre che ti apre le porte. E commercializzare diventa dura. Ecco perché il territorio dove più storica è la presenza di marchi importanti ha conosciuto un aumento di superfici vitate minore, mentre altre aree hanno scoperto questa vocazione. E infatti secondo la Cia in 10 anni i vigneti sono cresciuti del 22% in provincia di Livorno e del 28% in quella di Grosseto, mentre a Firenze solo del 3,7% e a Siena del 5,5%. E’ anche vero che bisogna evitare che l’intera superficie dedicata all’agricoltura sia riservata alla produzione enologica, che oggi copre già 60mila dei circa 100mila ettari a servizio delle colture specializzate. Ma anche in questo senso è il mercato ad autoregolarsi, se noi sappiamo regolare il mercato, evitando ad esempio di dare contributi per lo sviluppo di attività che non garantiscono una certa continuità nel tempo. Cosa che vale per l’agricoltura come per l’industria. (Maurizio Abbati)