”Più cultura per uscire dalla crisi. Ma basta con le clientele” ”Su questo tema c’è ignoranza di fondo della classe dirigente”. Parla Mario Curia della Mandragora

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Qualcosa in più, il fascino dell’inutile. La cultura nel nostro paese indossa sempre le vesti dell’ancella, bella ma costosa da mantenere, incapace di contribuire al bilancio della comunità. Strano davvero per un’Italia che della cultura in qualche modo resta una culla. E strano anche in una città come Firenze, che stretta nelle sue mura assume le dimensioni di un gigante a livello internazionale quando si parla della sua storia e del suo patrimonio artistico.

Eppure di cultura si può anche mangiare, eccome. Anzi, senza cultura oggi non si sopravvive. Così pensa anche Mario Curia, fondatore della casa editrice Mandragora e vicepresidente di Confindustria Firenze. “Purtroppo qui da noi c’è da sempre un’ignoranza di fondo su questo tema da parte delle classi dirigenti. In Italia – ricorda Curia – non si è mai sentito parlare di un politico che ha voluto lasciare un segno attraverso la cultura, come è accaduto invece altrove, ad esempio in Francia. Ma bisogna anche capire cosa si intende per cultura, che va vista come tutto ciò che sta dietro ad ogni attività, dalla medicina alla ricerca. Settori in cui hanno investito molto i paesi che ora vanno meglio a livello economico. Del resto sarebbe pensabile il successo della moda made in Italy se non avessimo alle spalle secoli in cui si è investito in cultura? Anzi, credo che uno dei pochi settori in cui possiamo investire per uscire dalle secche della crisi sia proprio la cultura”.

Ma qui da noi cultura è spesso sinonimo di soldi pubblici spesi senza alcun ritorno.

“Il problema è quello della cattiva allocazione delle risorse. Spesso i soldi vengono affidati a degli incompetenti o a chi ha competenze artistiche e culturali ma non manageriali. Va poi sottolineata anche la difficoltà legata alla mancanza di ogni sorta di programmazione, che rende difficile investire, considerato che non c’è mai certezza sui fondi disponibili”.

E Firenze?

“Firenze sta vivendo un momento molto basso della sua produzione culturale, ma allo stesso tempo ha una miriade di realtà attive sottotraccia che cercano spazio. Quello che manca è un senso di comunità, ognuno va per la sua strada. Così come manca il dinamismo. Alla fine degli anni 80 l’effervescenza è finita e veniamo da tre decenni di silenzio e provincialismo. Inoltre si avverte l’assenza di luoghi di aggregazione, la gente non si incontra più”.

Una città che avrebbe bisogno di nuovi protagonisti in campo culturale insomma?

“Diciamo che resta una questione importante aperta: quella del merito. Le cose deve farle chi le sa fare, basta con le clientele”.

(Maurizio Abbati)

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